23.5.15

Absit iniuria verbis- TJQ globalizzato


Ho già avuto modo di esprimere le mie perplessità riguardo l'intenzione, da parte del governo cinese, di promuovere la pratica del Tai ji Quan al punto di farla giungere ad una diffusione “globale” alla stregua di quella ottenuta a suo tempo dallo Yoga.



Francamente, non potrei immaginare una catastrofe peggiore: per quanto alcuni vi vedranno l'opportunità decisiva per incrementare la propria fama e i propri introiti, o si sentiranno finalmente sdoganati agli occhi del grande pubblico, una prospettiva simile non rappresenterebbe altro che una brusca accelerazione del processo degenerativo iniziato, suo malgrado, con Yang Chenfu e culminato con la codifica della famigerata forma di Pechino (1956), alla quale si deva una prima, massiccia diffusione del Tai Ji al di fuori dell'ambiente delle arti marziali.


Sebbene molti sostengano come questo processo di popolarizzazione abbia permesso, semplificandolo e rendendolo accessibile pressochè a chiunque, la stessa sopravvivenza del Tai Ji Quan, in realtà ha finito per snaturarlo quasi completamente, al punto che la maggior parte di quel che viene spacciato per tale effettivamente non lo è, e non sempre si può invocare la buona fede.


Infatti, a partire dalla codifica sempre più rigida delle forme del Tai Ji Quan, ossia il vero e proprio peccato originale della concezione falsata della disciplina, questa volontà di rendere più semplice e soprattutto omogeneo il modo di praticare ne ha eroso progressivamente la percezione corretta, fatta di comprensione e manifestazione di principi, e non di adeguamento pavloviano a modelli morti e imposti.


Non a caso, quando mi capita di vedere immagini di classi più o meno sterminate, punteggiate di figure storte, sovrappeso o prossime a spirare, eppure tutte convintissime e ben paludate nei loro candidi pigiamini mentre si contorcono al rallentatore come tanti zombi in una piantagione di canna da zucchero, provo sempre un brivido, e non di rado soffoco un conato.


Quello non è Tai Ji Quan, punto.


E non potrebbe essere altrimenti, perchè il Tai Ji Quan è in primo luogo un fatto di ricerca strettamente personale, condivisibile tutt'al più con un ristretto numero di “fratelli” insieme ai quali è possibile instaurare un rapporto di mutuo scambio e supporto, e non ha evidentemente nulla a che spartire con l'immersione nella poltiglia anonima di cui sopra, e che in molti, cinesi per primi, vorrebbero diffusa “globalmente”.

Oltretutto, la pratica autentica del Tai Ji Quan, come del resto avviene in altre arti e discipline tradizionali, conserva, in particolar modo in quel che riguarda la didattica, delle caratteristiche e modalità proprie che si potrebbero definire “artigianali”, frutto cioè, di una maestria acquisita e applicata ad un dato materiale a seconda delle esigenze di un preciso committente, e quindi decisamente estranea all'organizzazione “industriale” di creazione e messa in vendita di un qualunque prodotto standard fruibile da chiunque.

 
In definitiva, ad agitarsi è sempre lo spettro del voler rendere omogeneo qualcosa che omogeneo non è, e non può diventarlo a meno di non venir meno alla sua propria natura. E ciò che non è omogeneo è giocoforza escluso da un eventuale mercato “globale”, come quello che si vorrebbe veder aperto nel prossimo futuro...

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